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venerdì 20 novembre 2009

BROOKE MAGNANTI, LA RICERCARTICE ESCORT





Era il 1967 quando Cathrine Deneuve scandalizzava il mondo con Bella di Giorno, il film di Luis Bunuel in cui vestiva i panni di Séverine, giovane moglie di un medico che, insoddisfatta della sua vita coniugale, scappava dalla quotidianità trasformandosi in una prostituta d’alto bordo. Oggi, quarantadue anni dopo, una nuova “Belle de jour” ha lasciato di stucco l’Inghilterra e il mondo del web. Per anni ci si è interrogati sull’identità dell’autrice del cliccatissimo blog ( belledejour-uk.blogspot) da cui poi sono stati tratti una serie televisiva e un best seller. C’è chi avanzava dubbi sulla genuinità del prodotto, chi pensava ad un’operazione di marketing di dubbio gusto. E invece, dietro a questo fenomeno editoriale, si celava addirittura una giovane scienziata. Brooke Magnanti, 34 anni , è una neuro tossicologa ed epidemiologa dell’ospedale di Bristol, specializzata nella ricerca sul cancro e sugli effetti che producono i pesticidi. Ma non solo.
Nel suo curriculum non aveva mai fatto menzione di svolgere anche una professione molto redditizia, la più antica. Brooke ha rivelato infatti di essere stata una escort, come dicono i benpensanti o forse sarebbe meglio dire gli ipocriti. Di fatto, una prostituta da 300 sterline (circa 350 euro) all’ora. Tutto inizia qualche anno fa. La giovane è una studentessa di buona famiglia che punta ad ottenere il dottorato di ricerca. A un certo punto, però, le mancano i soldi per proseguire gli studi e non le sembra il caso di chiedere aiuto a mamma e papà. Soluzione: trovare un’attività che non implichi un gran dispendio di energie, che le garantisca liquidità immediata e che le lasci del tempo libero per studiare. E così Brooke decide di rispolverare il personaggio interpretato da Catherine Deneuve e di iniziare una doppia vita che la porterà a specializzarsi e a mettere anche qualche soldino da parte.
Quando la dottoressa Magnanti conclude il suo percorso di studi, pensa che qualcuno potrebbe appassionarsi alla sua storia: e allora sotto col blog, il libro, la fiction tv. Tutto rigorosamente in incognito. Fino alla scorsa domenica, quando Brooke ha scelto di ricongiungere la ricercatrice e la prostituta, due facce di una medaglia difficile da immaginare. « Ho sempre pensato che la parte della mia vita di cui ho scritto sarebbe un giorno evaporata. Che l’avrei cacciata in una scatola. Totalmente separata dal mio essere reale», ha scritto Brooke Magnanti sul suo blog. Ora, dopo l’annuncio shock anche l’attività di blogger sembra essere giunta al capolinea. In sei anni Brooke ha parlato delle sue storie intime, dei rapporti con i suoi clienti, raccontando un mondo che sembrava essere lontano anni luce da quello in cui dovrebbe muoversi una giovane scienziata e che, in realtà, rappresentava la sua quotidianità. E adesso viene il bello: continuare a vivere tra guanti e provette, lottando contro i pregiudizi, darsi completamente all’editoria, o proseguire nelle due attività, questa volta alla luce del sole, sono gli scenari che la ricercatrice inglese ha davanti a sé. Di sicuro sentiremo ancora parlare di lei. C’è da scommetterci.

venerdì 13 novembre 2009

JOE CONFORTE, IL RE DEI BORDELLI




Una vita sempre ai limiti, spesso anche oltre: Joe Conforte, siciliano d'origine ma americano d'adozione, è passato alla storia per essere stato il primo proprietario di un bordello legalizzato negli Stati Uniti.
Tutto ha inizio nel 1926 ad Augusta, una splendida località adagiata sul mare a pochi chilometri da Siracusa. Qui, suo padre, un mercante di vino che fa la spola tra gli States e la Sicilia, conosce quella che sarebbe diventata sua madre. Joe rimane sull'isola fino al 1937, anno in cui perde sua madre, per trasferirsi con il padre e due dei suoi tre fratelli a Boston. Ma la vita nella capitale del Massachusetts non è all'altezza delle aspettative del piccolo Joe che, evidentemente, ha già in mente di vivere a tutta. Tanta voglia di evadere e di mettersi in gioco e venti dollari in tasca bastano a Joe per garantirsi l'approdo a New York. Nella Grande Mela Conforte si stabilisce per un anno, mantenendosi come fruttivendolo.
L'anno successivo arriva a Los Angeles: siamo in pieno conflitto mondiale e gli stranieri del fronte anti-Usa hanno l'obbligo di registrarsi in appositi elenchi. Ma il ragazzo è scaltro e grazie al suo inglese già fluido riesce ad evitare quest'incombenza. Trova casa insieme a due ebrei tedeschi, che invece sono tenuti a rispettare il coprifuoco imposto dalle autorità statunitensi.
Di stare con le mani in mano Conforte non ne vuole sapere e riesce ad occupare un negozio lasciato libero da alcuni giapponesi, costretti a lasciare il Paese a causa dell'inasprirsi dei rapporti tra Giappone e Stati Uniti. La guerra lo chiama e Joe diviene soldato della Us Army. Per l'esercito americano combatterà sull'isola di Guam, divenuta tristemente nota come teatro di una delle più dure battaglie della seconda guerra mondiale. Dopo qualche tempo è a San Francisco: sulla costa californiana sarà un tassista particolare che si occupa del trasporto di soldati e marinai in servizio nella zona verso i bordelli del luogo. É la prima volta che la prostituzione entra nella vita di Joe Conforte. Allora un lavoretto per tirare a campare, in futuro un business che gli frutterà milioni di dollari. Ma prima di diventare il “re dei bordelli”, il siciliano d'America incapperà in diversi guai giudiziari: nel 1959 le porte del carcere gli si schiudono per aver tentato di estorcere del denaro ad un procuratore distrettuale, quattro anni dopo è un accusa di evasione fiscale a metterlo dietro le sbarre per due anni e mezzo.
Il suo legame vero e proprio con il mondo della prostituzione nasce nel 1955. L'inizio è a dir poco singolare: Conforte lancia una sorta di “bordello itinerante”, tre roulotte che girano in lungo e in largo alla ricerca di clienti da soddisfare. Dopo un anno in tour per gli Stati Uniti è arrivato il momento di stabilizzarsi. Quale miglior luogo se non il Nevada, emblema della vita sregolata e senza pensieri. Nello “Stato d'argento” nasce così il Mustang Ranch. Un nome destinato a rimanere scolpito per sempre nella mente degli amanti del sesso a pagamento e non solo. A gestirlo anche sua moglie Sally. Da subito, la donna si dimostra avvezza agli affari e il bordello diventa uno dei luoghi preferiti dagli uomini più influenti dello Stato. Ma quando tutto sembra andare per il verso giusto, il pugile argentino Oscar Bonavena irrompe nella vita dei Conforte. Sally è colpita dalle attenzioni di quest'uomo e finisce per diventare la sua amante. Conforte teme che i due possano portargli via il suo bene più prezioso, il Mustang Ranch. La pallottola sparata da una sua guardia del corpo è l'epilogo quasi scontato di questa vicenda. É il 22 maggio 1976: nulla sarà più come prima nella vita di Joe Conforte che comunque riuscirà a non essere coinvolto nel processo per la morte di Bonavena. Certo, i suoi guai con la giustizia non gli daranno mai tregua e nel 1977 farà ritorno in carcere, ancora una volta per evasione fiscale. La sua storia negli Usa appare ormai irrimediabilmente segnata e Joe è costretto a fuggire in Brasile nel 1991. La Suprema Corte brasiliana non riconosce agli Usa il diritto all'estradizione e oggi Conforte è un anziano dall'aria pittoresca che gestisce una fazenda e un negozio di prelibatezze locali. Afferma soddisfatto di essere un uomo ancora attivo e nel pieno delle sue forze, e rivendica con orgoglio l'ultima paternità che risale alla fine del 2007. Nonostante i suoi 83 anni suonati, Conforte non disdegnerebbe un ritorno nel suo paese natale, a patto che lo Stato italiano accolga le sue richieste: legalizzare la prostituzione e costruire dei centri di recupero per tossicodipendenti con i fondi ricavati dalla tassazione sui bordelli. Un'idea stravagante, figlia di un personaggio che non smetterà mai di stupire.

giovedì 12 novembre 2009

LA DEPRESSIONE NEL MONDO DELLO SPORT: ENKE E GLI ALTRI





Tristezza, crisi di pianto, sentimenti di colpa o inutilità. In una sola parola, depressione. Si calcola che il 20-30 % della popolazione generale, nel corso della propria vita, abbia sofferto di sintomi depressivi. Il dato è ancor più rilevante se si considera che, secondo l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), circa il 60 % dei casi non viene diagnosticato e quindi non viene trattato.
Nelle ultime ore “il male del secolo” ha fatto un’altra vittima illustre: Robert Enke, 32 anni, portiere della nazionale tedesca e dell’Hannover 96.
«Perdonate se non vi ho fatto capire quello che avevo già deciso», ha scritto Enke in alcune righe scritte prima di gettarsi sotto un treno. Erano almeno 6 anni che il portiere tedesco soffriva di depressione, dai tempi delle sfortunate esperienze con il Barcellona e il Fenerbahçe.
Il suicidio di Robert Enke è l’ennesimo tributo che il mondo dello sport paga alla depressione. Dal ciclista Luis Ocana, vincitore della Vuelta 1970, al capitano della Roma del secondo scudetto Agostino di Bartolomei, passando per i portieri Lester Morgan e Tim Carter. Senza dimenticare le misteriose morti di Frank Vandenbroucke e Marco Pantani, due tra i talenti più cristallini che gli amanti del pedale ricordino.
Come in ogni ambiente, è possibile trovare casi di depressione anche nello sport. Gli stadi più avanzati portano all’impossibilità di assolvere alle comuni attività quotidiane come alzarsi dal letto, lavarsi, uscire di casa. Il segnale più preoccupante per gli sportivi è l’assenza dalle competizioni. Prima di arrivare a questo stadio di avanzamento del fenomeno, possono trascorrere anche settimane o mesi, durante i quali iniziano a presentarsi i primi segnali di sofferenza. L’atleta professionista vive del suo sport e tutto gli sembra essere legato alla sua attività. La propria autostima dipende in gran parte dai risultati che riesce ad ottenere.
Se nella crescita personale dell’atleta non è avvenuta una maturazione tale da potergli permettere di affrontare e gestire situazioni complesse, il rischio di vivere un episodio depressivo aumenta.
È possibile prevenire la depressione negli sportivi? Non ci sono risposte univoche a questo quesito, ma un’opera di prevenzione appare comunque possibile. Considerare l’atleta come uomo prima ancora che come atleta e prestare attenzione a tutti i suoi bisogni, non solo a quelli sportivi, sembra la strada giusta da seguire per evitare il peggio. Ma chi oggi ruota attorno ai professionisti dello sport è quasi sempre mosso da motivazioni economiche. Davvero in pochi sanno chi è il calciatore finiti i novanta minuti di gioco o il ciclista una volta sceso dal sellino. E, una volta che la situazione è compromessa, i farmaci non bastano a scongiurare il pericolo. C’è bisogno di un adeguato trattamento psicoterapico. Per evitare che il mondo dello sport si trovi spiazzato e ferito di fronte all’ennesima morte di uno dei suoi protagonisti.

mercoledì 11 novembre 2009

I VACCINI, I MEDIA E L'INFLUENZA A




Sembra di essere in guerra: due milioni e mezzo di dosi già arrivate alla Regioni, e a fine novembre saranno cinque. Ma gli italiani vaccinati sono poco meno di 80 mila. In sostanza, 97 dosi su 100 sono rimaste nei cassetti. Il vaccino anti-influenza A diventa un caso.
La macchina messa in moto dal ministero della Salute stenta a decollare. A fermarla, lo scetticismo delle persone: molti non si fidano degli effetti collaterali, altri seguono la strada intrapresa da medici di fama che si rifiutano di vaccinarsi. Gli “obiettori di vaccini” hanno raccolto dossier e si sono concentrati sui possibili rischi connessi alla somministrazione del vaccino. I più importanti, a loro dire, legati al mercurio e allo squalene: il mercurio si troverebbe in un quantitativo considerato pericoloso per i bambini e le donne incinte; lo squalene, un idrocarburo presente nel fegato degli squali, avrebbe provocato malattie a molti veterani della guerra del Golfo.
Accuse respinte al mittente dal viceministro della Salute Ferruccio Fazio e da esperti del settore: «Il prodotto è sicuro, ha superato i controlli dell’Emea, l’organismo europeo che ne ha certificato i livelli di sicurezza ed efficacia sulla popolazione», hanno affermato in coro.
Al momento, comunque, gli italiani non sembrano avere tanta voglia di vaccinarsi, nonostante l’opera di allarmismo, più che di sensibilizzazione, messa in atto dai media. Ogni giorno i principali mezzi di comunicazione riservano titoli di apertura ad un virus che, è giusto sottolinearlo, ha portato sino ad oggi alla morte di 34 persone su un totale di 785 mila casi stimati nel nostro Paese. Delle persone decedute soltanto una non aveva gravi patologie pregresse. Di influenza tradizionale si muore molto di più, ma in pochi ne parlano.
Il sospetto su interessi molto forti che si celano dietro l’influenza H1N1 esiste: c’è un’attenzione eccessiva su un fenomeno che va sì monitorato ma con meno enfasi. I beninformati parlano di una pressione da parte delle lobby farmaceutiche sui media per spingere la gente verso i luoghi di somministrazione del vaccino. Altri sostengono invece che l’influenza A faccia comodo agli stessi operatori della comunicazione. Viviamo in un Paese in cui l’informazione lascia sempre più spazio alla spettacolarizzazione e al sensazionalismo. Il virus dell’influenza A ha le sembianze della vittima sacrificale giusta sull’altare degli ascolti e della vendita dei giornali. Trasmissioni ad hoc, speciali e interviste a infettivologi e virologi riempiono ormai tutte le fasce orarie dei palinsesti e le griglie di impaginazione dei giornali.
Il rischio concreto è che si crei una psicosi del tutto ingiustificata, come già accaduto in passato per il virus Ebola, l’influenza aviaria o la Sars. Nomi che oggi fanno quasi sorridere, ma che qualche tempo fa toglievano il sonno a milioni di italiani. E poi, se ad informarci sui rischi del contagio deve essere Topo Gigio, vuol dire che la famigerata influenza H1N1 non è poi così pericolosa per chi non soffre già di gravi patologie. Fosse stato Gargamella, allora avremmo iniziato a preoccuparci come i Puffi.

martedì 10 novembre 2009

VIA POMA 19 ANNI DOPO: IL "FESTIVAL DELLA SUPERFICIALITA' "




Ventuno anni ancora da compiere, un lavoro come segretaria contabile presso l'Aiag ( Associazione italiana alberghi della gioventù), una famiglia come tante. É il 7 agosto 1990 e Simonetta Cesaroni deve sbrigare le ultime pratiche in ufficio prima di andare in ferie. La giovane solitamente fa ritorno a casa verso le 20. Ma quella sera ritarda. Tre ore e mezza dopo, la terribile scoperta: la sorella Paola, il suo fidanzato, la moglie del portiere dello stabile e il datore di lavoro di Simonetta la trovano cadavere sul pavimento nell'ultima stanza della sede dell'Aiag a Roma, in via Carlo Poma 2, all'interno di un elegante stabile nel quartiere Prati. 29 fendenti inflitti con un tagliacarte hanno messo fine alla sua giovane vita. Oggi, a 19 anni di distanza, arriva il rinvio a giudizio per omicidio volontario per Raniero Busco, all'epoca dei fatti fidanzato della Cesaroni.
Appare lecito porsi alcuni quesiti alla luce degli ultimi clamorosi sviluppi della vicenda: come mai c'è voluto un lasso di tempo così ampio per arrivare ad una svolta così pesante? Non si poteva arrivare in tempi più brevi ad una soluzione del caso? Raniero Busco oggi ha 44 anni, una moglie e due figlie: è giusto darlo in pasto ai media con la peggiore delle accuse rovinandolo, comunque vada, per sempre?
Ma andiamo con ordine, se è possibile utilizzare questo termine in una storia contraddistinta da una serie infinita di errori e omissioni.
Subito dopo il delitto gli inquirenti concentrano la loro attenzione su Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile. É il primo errore nelle indagini. Vanacore non avrebbe un alibi tra le 17,30 e le 18,30, ora in cui è avvenuto il delitto, e su un paio di pantaloni dello stesso Vanacore vengono ritrovate tracce di sangue. É “il colpevole perfetto”: 26 giorni di detenzione prima del dietrofront dei giudici. Sembrerà incredibile ma Vanacore deve il carcere, oltreché alla superficialità degli inquirenti, alle emorroidi che hanno macchiato di sangue i suoi pantaloni.
Nel marzo del 1992 un austriaco di nome Roland Voller afferma di sapere il nome dell'assassino di Simonetta: è Federico Valle, nipote di un anziano architetto che vive proprio nel palazzo dove c'è stato il delitto. Avrebbe ucciso la Cesaroni per porre fine ad una fantomatica storia d'amore tra la ragazza e suo padre Raniero. Anche in questo caso gli inquirenti non si dimostrano all'altezza della situazione e Valle viene indagato per omicidio. Hanno creduto ad un personaggio di dubbia moralità come Voller, truffatore di professione con contatti nel mondo dell'alta finanza. Nel giugno dell'anno seguente, grazie alla prova del dna sulla maniglia della porta dell'appartamento in cui è stato ritrovato il cadavere, il giovane viene prosciolto.
Bisognerà attendere il 2004 per uno scossone nelle indagini: i carabinieri del Ris di Parma trovano un dna di sesso maschile, sotto forma di tracce di saliva, sul corpetto e sul reggiseno che la vittima indossava al momento della morte. Miracoli della scienza e dell'innovazione tecnologica, si dirà, cercando di far ripartire un'indagine che si era arenata più volte. Su 31 prelievi effettuati per la comparazione con le tracce rinvenute sui reperti appartenuti alla vittima, soltanto uno dà esito positivo: è il dna di Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta. Trascorrono altri tre anni e Busco viene formalmente iscritto nel registro degli indagati. Ad inchiodarlo ci sarebbe anche la compatibilità tra la sua arcata dentaria e il segno lasciato da un morso sul seno della vittima. L'accusa: aver massacrato la sua ragazza verosimilmente al termine di una lite.
La difesa: le tracce di dna risalgono ad un incontro precedente tra i due fidanzati in cui Busco e la Cesaroni si sarebbero scambiati effusioni, come normalmente accade tra due persone legate sentimentalmente.
Il rinvio a giudizio è storia di questi giorni e il 3 febbraio prossimo Busco dovrà presentarsi davanti ai giudici della III Corte d'Assise del Tribunale di Roma. La mamma della vittima, attraverso il proprio legale di fiducia, ha mostrato la sua rabbia nei confronti degli inquirenti, sottolineando come quegli esami, che oggi incastrerebbero Busco, si sarebbero potuti effettuare anche 19 anni fa. D'altro canto però, la signora Cesaroni ha espresso soddisfazione perché finalmente si potrà svolgere un processo sulla morte della figlia. Ma a processo c'andrà “l'uomo giusto”? O Raniero Busco è soltanto l'ultimo inconsapevole protagonista di una crime fiction a cui nemmeno il più sconclusionato degli autori televisivi avrebbe potuto pensare? Al Tribunale di Roma l'ardua sentenza.

lunedì 9 novembre 2009

IL PRIMO UOMO MULTIPIATTAFORMA D'ITALIA: ENZO TORTORA. UNA STORIA DA RACCONTARE A CHI INTRAPRENDE LA PROFESSIONE GIORNALISTICA E NON SOLO..



Un uomo gentile, mite, colto, dall'ironia tagliente: questo era Enzo Tortora. Nelle scuole di giornalismo e nelle accademie di spettacolo se ne dovrebbe parlare più spesso e invece sovente ci si trova dinanzi a ventenni che sgranano gli occhi quando lo sentono nominare. Al massimo ricordano di sfuggita un uomo ammanettato e martoriato dalla gogna mediatica con una delle accuse più infamanti: essere un camorrista spacciatore di droga.
La sua storia ancora oggi è di grande attualità, visto che spesso sentiamo parlare di multimedialità e di una giustizia che non sa ammettere i propri errori. Due mondi che non hanno nulla in comune, ma che si ritrovano nella figura di Enzo Tortora.
La sua carriera in Rai inizia con uno spettacolo radiofonico, Campanile d'oro. Il passaggio alla tv di stato è del 1956 con il programma Primo Applauso. Ma il successo arriva con Telematch (1957) e Campanile Sera (1959). Basato su un format francese, Telematch fa il pieno di ascolti anche grazie al cosiddetto "coso", un oggetto misterioso, presentato dalle piazze di tutto il Paese, che deve essere indovinato dai concorrenti. In Campanile Sera Tortora cura i collegamenti con i paesi dell'Italia settentrionale, dimostrando grandi capacità dialettiche e affabilità.
Nel 1962 il conduttore genovese viene cacciato dalla Rai per non aver bloccato il celebre imitatore Alighiero Noschese nei panni di Amintore Fanfani, all'epoca segretario della Democrazia cristiana, il partito che di fatto controllava la programmazione del servizio pubblico radiotelevisivo. Un colpo durissimo per Tortora, che però non si dà per vinto, sbarcando in Svizzera alla corte della Televisione svizzera italiana.
Cinque anni più tardi Enzo Tortora viene richiamato in Rai. Gli viene affidata la conduzione della Domenica Sportiva. Sarà uno dei suoi tanti colpi di genio: da noioso notiziario sportivo, la Ds diviene un frizzante contenitore di immagini e opinioni sulla giornata calcistica appena trascorsa. Ma alla fine degli anni '60 un nuovo "esilio" attende Tortora: i vertici Rai non gli perdonano alcune pesanti esternazioni sull'allegra gestione di Viale Mazzini e per il popolare conduttore genovese è di nuovo tempo di fare la valigie e ripartire verso una nuova sfida.
Sfida prontamente raccolta: Enzo Tortora inizia la sua carriera giornalistica, collaborando con La Nazione e Il Resto del Carlino. Nel frattempo diventa uno dei pionieri della neonata tv commerciale, a Telebiella, Telealtomilanese e Antenna 3 Lombardia.
Fino alla primavera del 1977 quando nasce il "miracolo" Portobello. La Rai è alle prese con l'attuazione della prima legge di riforma del sistema radiotv e Portobello segnerà per sempre la storia della seconda rete e, più in generale, dell'intera televisione italiana. Sarà il primo programma di successo a non essere trasmesso dalla rete ammiraglia: un trionfo senza precedenti con punte di 28 milioni di telespettatori. Per molti critici televisivi, Portobello è stato il precursore di molti tra i più fortunati format che si sono succeduti negli anni. Programmi come Chi l'ha visto, Carramba e i Cervelloni sono da considerarsi come la diretta emanazione del "giocattolo perfetto" ideato e costruito dallo showman ligure.
Ormai Tortora è un esempio da seguire, un' icona irraggiungibile. É il presentatore televisivo più conosciuto e apprezzato in un Paese di teledipendenti: un dio, in sostanza.
Ma la vita a volte ti mette con le spalle al muro, spesso ingiustamente. É il 17 giugno del 1983. Una data che di fatto sarà l'inzio della fine per Enzo Tortora.
Le manette nel cuore della notte, i flash e le telecamere chiamate ad hoc. Chissà quanti pensieri si accavallano nella mente di un uomo che fino ad un minuto prima era un modello per milioni di persone, ed ora è uno spacciatore affiliato alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Sempre se un uomo riesce a pensare in una situazione del genere: accusato di un crimine pesantissimo senza potersi difendere, semplicemente perchè del tutto all'oscuro delle trame che infittiscono quel mondo così torbido.
Enzo Biagi sarà il primo a lanciare un appello in suo favore: e se fosse innocente, si chiederà in un editoriale pubblicato su La Repubblica sei giorni dopo il suo arresto: «Mentre voi leggete questo articolo, Enzo Tortora è a colloquio con i giudici: sapremo poi, con più esattezza, di quali reati è incolpato, o meglio di quali deplorevoli fatti si sarebbe reso responsabile. Fino all'ultima sentenza, per la nostra Costituzione, stiamo parlando di un innocente. Invece, in ogni caso, è già condannato».
Da allora inizierà un calvario lungo cinque anni. Ma ancora una volta il presentatore non si piega e questa volta sceglie la strada dell'impegno politico, riuscendo a strappare un seggio all'Europarlamento nelle file dei radicali. Pur protetto dall'immunità, Tortora decide di dimettersi e di farsi arrestare nuovamente dopo la sentenza di primo grado emessa il 17 settembre 1985: dieci anni di carcere sulla base delle testimonianze di collaboratori di giustizia o più semplicemente di mitomani in cerca di pubblicità o sconti di pena. Solo un anno più tardi, i giudici d'appello riusciranno a fare chiarezza e a restituire l'onorabilità ad un uomo ormai irrimediabilmente segnato nel corpo e nell'animo.
Il 20 febbraio 1987 Enzo Tortora si riprende la sua creatura più bella, Portobello: «E allora, dove eravamo rimasti?», si chiederà visibilmente emozionato davanti ad un pubblico adorante. Un pezzo di storia della televisione che ancora oggi fa venire i brividi.
Ma ormai è troppo tardi e nulla potrà mai restituirgli il maltolto. Tortora morirà infatti il 18 maggio del 1988 dopo essersi "ammalato di ingiustizia". Nella bara, scortata da ali di folla in un grigio pomeriggio milanese, una copia della Storia di una colonna infame di Alessandro Manzoni. Un libro che parla di falsi pentiti, di accuse costruite a tavolino, di processi farsa e di scellerate impunità. La sua storia, verrebbe da dire. Una storia che ognuno di noi dovrebbe portare dentro di sè come esempio di un uomo che riusciva ad essere "padrone" di ogni tipo di media e che è stato distrutto da una "giustizia" che troppo spesso sbaglia senza pagare.


Sul caso Tortora si consiglia la lettura del volume "Applausi e sputi- Le due vite di Enzo Tortora" di Vittorio Pezzuto, Sperling & Kupfer, 2008 e la visione del film "Un uomo perbene" di Maurizio Zaccaro con Michele Placido nei panni dello sfortunato presentatore.

ALLACCIATE LE CINTURE!SI PARTE!

Ho pensato diverse volte se valesse la pena o meno di dedicare parte del mio tempo all'analisi dei fatti che accadono quotidianamente. Alcuni di essi vengono saltati a piè pari dai nostri media, altri sono volutamente "mascherati" e altri ancora del tutto ignorati.
Sarò un sognatore o qualcosa di simile per pensare ancora oggi che il ruolo del giornalista sia quello di portare alla luce i fatti. Non necessariamente mi occuperò di casi scottanti, anzi. Spesso capiterà di focalizzare la mia attenzione sulle notizie più frivole, perchè anch'esse sono parte integrante del giornalismo e della vita quotidiana.
La mia speranza è che possiate appassionarvi alle notizie che vi segnalerò e che possiate darmi una mano in questa piccola grande avventura che inizio oggi.
Allora...Allacciate le cinture!Si parte!